“Tondino di rame e ottone, altoparlanti e materiali elettronici, a cui poi si aggiunsero legno, conchiglie, vernici, materiali di recupero, altri metalli: i primi lavori sono nati spontaneamente, come per gioco e per via di sperimentazione, come a seguire un’inclinazione spontanea”.
Preziosi riescono gli appunti che mi ha inviato Giacomo Bonciolini, in risposta alla richiesta di conoscere la sua ricerca, gli inizi, le tappe, le opere.
“Queste le opere giovanili, anche se mi suona strano chiamarle così, perché le sento tuttora molto vicine, fuori da quel tempo storico, o forse perché ancora mi sento alla ricerca, con lo stupore degli inizi”.
Così egli ricorda gli anni settanta, quando nascono le “macchine del pensiero”, come ebbe a chiamarle Eugenio Miccini nel 1978, raccontando di congegni sofisticati, eppure del tutto inutili o, meglio, con una propria dissociata utilità.
Nascevano, e così accade ancora oggi, per un processo del tutto speciale, che procede per libere associazioni simboliche: immagini, suoni, messaggi, assemblati in forme impreviste dalla logica ordinaria.
All’assenza di funzione, quindi di senso, corrispondeva nelle macchine di Giacomo, sin da quegli anni, un presagio di libertà. Continua il suo messaggio: “Questo lavoro assunse per me una connotazione liberatoria, ribelle, una reazione al potere delle macchine, alla trasformazione dell'uomo secondo le esigenze del consumo.
Mi sentivo molto vicino al Dadaismo e al Surrealismo, prendevo spunto dal Futurismo e dai suoi ‘intonarumori’, e dalla Poesia Visiva che in quel periodo imperversava a Firenze”.
All’individuale traiettoria di questo giovane autodidatta, iscritto per qualche tempo alla Facoltà di Architettura, si intrecciavano i molteplici percorsi di una stagione dell’arte in Toscana.
Per un giovane nato a Monsummano e in aria di avventure artistiche, interessarsi agli artisti della Scuola di Pistoia era il passaggio conseguente.
Ed ecco che Giacomo si accostò a Umberto Buscioni e alla fragrante immaginazione del maestro di Bonelle; e così pure avvicinò Adolfo Natalini, maestro di una progettualità artistica critica e ‘impegnata’, negli anni in cui, insieme a Toraldo di Francia, insegnava Plastica ornamentale e Architettura in Facoltà.
La passione per il depistaggio dadaista, Giacomo certo lo aveva respirato in particolare da Eugenio Miccini, dal quale aveva appreso le possibilità combinatorie e la contaminazione dei linguaggi, alla ricerca di una nuova densità poetica e di una moderna tecnologica liricità, sulla scia delle proposte del Gruppo 70, nato dall’intesa interdisciplinare di musicisti, poeti, artisti di eterogenea provenienza; poi della Poesia Visiva. Altri spunti potettero essere preziosi nel clima pulsante di quegli anni, come, fra i tanti probabili, il passaggio a Firenze dello statunitense Joseph Cornell, pioniere dell’assemblaggio, rappresentato in una mostra dell’81 presso la Sala d’Arme di Palazzo Vecchio: nelle sue scatole di legno Cornell collezionava reliquie dai recessi della vita quotidiana, ad alimentare la sua personale Wunderkammer, declinata in sculture intese come rebus visivi.
Ma prima ancora, nell’80, lo spirito del tempo produceva due mostre significative a marcare il passo: la prima, nella stessa Sala d’Arme, sorta di consuntivo delle ricerche di oltre un decennio della compagine della Poesia Visiva; qualche mese dopo, la mostra del tutto sperimentale e desueta a Firenze, nella sua dis-locazione: Umanesimo e Disumanesimo, da un’idea di Lara Vinca Masini, con il coinvolgimento per gli allestimenti di Paolo Frassinelli e dei Superstudio. Nella sezione storica le opere spaziavano dal Simbolismo al Nouveau Réalisme, a documentare la natura ambigua e conflittuale della modernità nel suo rapporto con l’eredità rinascimentale, per poi arrivare altrove al tumultuoso irrompere del fantastico, del mito, dell’imprevedibile, dell’allusivo: erano interventi nel cuore dei cortili storici del centro urbano volti a infrangere l’esemplarità dei nobili spazi antichi con ironia e leggerezza. Interventi, insomma, che andavano proponendo installazioni spiazzanti, entro i ben noti scenari rinascimentali ora emotivamente rivisitati, sottoponendoli a ritmi di percezione diversi e provocatori. Un invito esplicito, insomma, a guardare diversamente, recuperando i tempi del libero apprendimento associativo.
Nel corso del nuovo decennio si accresceva frattanto la collezione di macchine del
pensiero di Giacomo, affiancata da una produzione di fotografie, nate a potenziare
l’immaginario, a caccia di epifanie e di misteri, voci del profondo, presenti nella natura o
nascosti fra le pieghe del quotidiano.
“La fotografia è sempre stata una passione fin da
bambino, non so perché. Ho provato a cercare i motivi di questo interesse ma non sono
riuscito a individuarli.
Semplicemente,da bambino, mi sono fatto regalare due macchine fotografiche,
e nel 1973, ho avuto la prima reflex: una Canon FT, che ho usato fino all'avvento del
digitale, e che conservo ancora”. Seguirono le diapositive, a sviluppare una ricognizione
lenta, ostinata, capillare, mentre il giovane si lasciava sedurre dagli arcani del Buddismo
Zen: con gli obiettivi macro, come un rabdomante, egli andava alla ricerca della bellezza,
scovata nei dettagli lenticolari di insetti, elementi botanici, esseri viventi, con ispirazione
animista.
Con l’avvento del digitale sarebbe successivamente nata la serie di paesaggi
industriali e paesaggi urbani: apparentemente un lavoro del tutto nuovo, eppure non
slegato dalle prime ricognizioni, per la ricerca di profondità e lentezza dello sguardo, di
spaesamento, di “magico realismo”.
Opere, per Giacomo, sentite coerenti al proprio
percorso di ricerca sull’essenza della bellezza. È proprio questa ricerca che Giacomo
percepisce in problematica dialettica con il presente, spesso scettico dinanzi al
pronunciamento dei valori.
Vengono in mente le parole con le quali Franco Rella,
filosofo e saggista, introducendo nel 1988 il convegno Forme e pensieri del moderno, al
Palazzo delle Albere di Trento, ci ricordava che in tutti i tempi chiamiamo bellezza,
oppure poesia, oppure meraviglia, oppure temibile stupore, ogni intuizione dell’universo
in un’immagine che improvvisamente si impone davanti ai nostri occhi: vertigine, dietro
l’inganno consueto.
Lungo questa strada accadono nuovi innamoramenti, per Giacomo: l’arte e il pensiero greci, sino a quel momento per lui obsoleti, tornano ad essere il propulsore di rinnovata potenza immaginativa, come originati da una costellazione, accanto alle altre costellazioni rappresentate dal pensiero e dalla spiritualità orientali. Arriva d’improvviso, quasi casualmente, come una folgorazione, l’interesse per il Rinascimento: alcune cartoline di pitture rinascimentali degli Uffizi intervengono nelle “macchine del pensiero” con effetto rebus, alla ricerca di reconditi arcani. Il messaggio si arricchisce di rimandi, interrogativi, simbologie, tenta di penetrare il mistero, si svolge secondo percorsi di forbitezza formale crescente, includendo gli effetti di sensori acustici e microprocessori. Si intuisce l’aspirazione dell’artista alla chiarezza intellettuale, a ricondurre la frammentarietà del visibile entro uno schema algido, attraverso forme sofisticate, elementari geometrie, in nuove tentate analogie con le profondità del Rinascimento. L’amore per la limpida bellezza della geometria si fa sogno di perfezione, d’armonia intellettualmente ordinata, senza errori nè casualità, laddove le forme diventano strumenti per penetrare l’enigma dell’esistenza. Altre volte emerge un’intuizione ironica, come nel caso de La pioggia nel pineto, macchina sonora con protagonista una foto ritratto del Vate, a cui si sovrappone un’insegna luminosa irridente e l’intervento di un sensore capace di riprodurre una sinfonia rumorista.
I tempi sono maturi per sperimentare nuove soluzioni tecniche ed estetiche, nell’ambito dei giardini sonori, laddove arte, natura, storia, scienza e hi-tech possono intrecciarsi: con questo spirito, dal 2003, Giacomo si accosta al gruppo Timet, fondato dal sound-designer Lorenzo Brusci e debuttante nel maggio del 2004 a Fabbrica Europa, nell’ambito di Musicus Concentus, quindi nel giardino Passerotti e presso la Limonaia dell’Imperialino, a Firenze, sulla via che sale al Poggio Imperiale e alla collina di Arcetri. Artisti del suono e della visione, accanto a giardinieri e storici del giardino, web designers, musicisti, performers, sound-architects inaugurano un laboratorio di sperimentazioni molteplici, attraverso installazioni elettroacustiche interattive con le specie botaniche coltivate e con il visitatore, nell’idea di amplificare i percorsi naturali coinvolgendo i cinque sensi, sulla traccia della grande tradizione dei giardini rinascimentali e barocchi.
Nel segno della sperimentazione, i tempi sono maturi per la mostra attuale, punto d’arrivo, sintesi compiuta delle pregresse ricerche, qui tutte idealmente contenute, ma proposte attraverso un percorso inedito. Giacomo mi descrive puntualmente la mostra come se già la vedesse, e sin dalle prime righe intuisco una nuova narrazione, ricercata con teatralità attraverso un vero e proprio intervento di environment : “Nella prima sala sarà l'opera che dà il titolo alla mostra, Il respiro del tempo. È una scultura sonora costruita su un angelo-reliquario del '700. Nel cuore della statua, un tempo alloggio delle reliquie, ho realizzato una struttura geometrica che contiene il microprocessore in cui risiede il software generatore di impulsi elettronici casuali, poi organizzati secondo l’algoritmo prescelto, quindi ‘trasdotti’ in suoni. È così che la composizione algoritmica viene inviata al sintetizzatore attraverso codici MIDI, poi amplificata e riprodotta”. Presenza dorata, misteriosa entità, epifania affiorante nell’oscurità della sala, il messaggero emette suoni di musica indiana: le note di un Raga del mattino che si chiama Ahir Bhairav e di un Raga della notte, Malkauns, ovvero "colui che indossa i serpenti come collane".
Alle spalle dell’angelo un grande Ficus, albero della Fertilità e della Sapienza, le cui
radici sono coperte da terra, muschio, foglie secche. Intorno, alle pareti, sei grandi stampe
fotografiche con piante acquatiche dalle foglie stellate – Giacomo le ha fotografate sommerse
dalla pioggia, nella suggestione del Padule di Fucecchio –, che gli hanno suggerito una delle
possibili metafore della vita, entità misteriosa e avvolgente, immersa nel tempo, soggetta alle
leggi dell’entropia e della sfuggevole sintropia.
Si accede quindi al secondo ambiente, dove
appaiono cinque sculture realizzate dal 2016, sorta di apparizioni nell’oscurità della sala. La
prima, Sintropia, già nel titolo rimanda al cuore della ricerca di Giacomo e allude a una delle
due forze vitali dell’universo, quella che, simmetricamente ma inversamente rispetto
all’entropia, ostacola il caos e promuove ogni naturale evoluzione, tanto che lo scienziato
Fantappié, nel primo Novecento, la considerò l’essenza stessa della vita, fonte di energia,
tensione spontanea e attrazione inesorabile verso un fine, legge d’Amore. Al posto di un’icona
rinascimentale, nella scultura sonora di Giacomo, appare ora protagonista una scultura tribale
di origine tibetana, piccolo rannicchiato totem ligneo, dagli occhi chiusi e mani a coprire ogni
ascolto esterno, davanti al quale è installata la geometrica macchina sonora - microprocessore,
sintetizzatore MIDI, amplificatore e altoparlante, come nel Respiro del tempo -, a indicare, con
la pregnanza dell’oracolo, il significato ultimo della vita. Il piccolo totem precede la
macchina intitolata Bisogna chiudere gli occhi: su di un ramoscello secco, pura silhouette, tre
altoparlanti collegati a tre diversi circuiti producono impulsi determinati dagli algoritmi di
controllo, quindi trasdotti in suoni registrati dall’artista alla fonte. Pur nei termini di astratta
geometria, il titolo scelto per l’opera sottolinea il senso stesso dell’oracolo, attraverso una
citazione tratta da Otto quaderni in ottavo di Franz Kafka, esattamente dal quarto quaderno,
che recita alla lettera: "Bisogna chiudere gli occhi per non precipitare", da Giacomo
interpretata come un monito che ho scelto come titolo di questo mio stesso contributo:
"Bisogna chiudere gli occhi per vedere".
Le altre sculture o macchine del pensiero proseguono nella narrazione, attraverso Microcosmo; quindi Paesaggio interiore, dalla cui base emerge un volto, e si diffondono i suoni del mare, la voce di un bambino, alcune note, il canto degli uccelli. Conclude la serie Lutezio, piccolo robot galleggiante, che prende il nome da un metallo bianco-argento resistente alla corrosione: pensato per stare nelle antiche fontane e muovere le loro acque attraverso un micro-motore, il robot produce grugniti, rumori meccanici, sibili. La sua attività è proporzionale all'illuminamento, e al buio si addormenta. La sala successiva è dedicata agli anni giovanili, con opere che si intrecciano ad altre contemporanee, a sottolineare la circolarità della ricerca artistica di Giacomo. Fra le ultime Il televisore - Ancora senza titolo: davanti a uno schermo acceso giacciono, sparse a terra, le lettere di una smembrata tastiera di PC. Intorno vibra il ronzio dell’apparecchio non sintonizzato su alcun canale, ad evocare il suono che, attraverso le sue invisibili radiazioni, pervade l’universo da oltre tredici miliardi di anni: il suono più antico dell’universo.
Conclude la mostra la quarta e ultima sala, dove sono allineate tre maschere tribali africane, capaci di produrre suoni all’accostarsi dei visitatori, corrispondendo così al messaggio di Sintropia. Giacomo pensa già ai possibili sviluppi, e immagina di sincronizzare in futuro quei suoni via radio, in modo da produrre una sola composizione coordinata.
La mostra Il respiro del tempo dunque si chiude idealmente al punto di partenza: emerge il
coraggio dell’artista di riarticolare il proprio passato, dando un senso nuovo e compiuto alle
opere giovanili, come reversibili e in dialogo pregnante con il presente. È un canone dolce,
che mette a nudo l’autore, umilmente sospeso dinanzi alle porte del mistero della vita.
E in questa ricercata circolarità, ci piace concludere con l’aforisma di Isac Newton, che
Giacomo ha scelto per avviare il suo contributo nel presente catalogo, quasi come fosse
l’epigrafe di un ritratto: “Non so come il mondo potrà giudicarmi ma a me sembra soltanto di
essere un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso
o una conchiglia più bella del solito, mentre l’oceano della verità giaceva inesplorato davanti
a me”.
Giovanna Uzzani - Febbraio 2020